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Giuseppe Pizzuto

Da un vecchio deposito di frutta a Torpignattara alla nuova sede milanese. Abbiamo ripercorso la storia recente della Wunderkammern di Roma con Giuseppe Pizzuto, socio classe 1980 della galleria

Scritto da Nicola Gerundino il 19 gennaio 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2017

Nel primo Vacanze di Natale, gli abitanti di Torpignattara venivano definiti «Torpigna», a mo’ di clan tribale da età della pietra. Con grande senso della sfida, nel 2008 Afra Zucchi, Franco e Giuseppe Ottavianelli aprirono in quel quartiere la loro galleria. Dopo un paio di anni di mostre dedicate all’arte contemporanea più “canonica”, iniziarono a ospitare nomi legati alla street e urban art: dai big stranieri come Mark Jenkins, Dan Witz e Invader a una folta schiera di italiani quali Sten Lex, Agostino Iacurci o Jacopo Ceccarelli. Scelta azzeccatissima, come testimoniano le code all’ingresso in occasione di ogni opening. Addì 20 gennaio 2016, la Wunderkammern inaugura una nuove sede a Milano, con la personale de Blek le Rat: ne abbiamo approfittato per avvolgere – indietro ma anche in avanti – il nastro con Giuseppe Pizzuto, romano classe 1980, che dal 2011 è diventato socio della galleria.

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Il pubblico della galleria Wunderkammern durante l’opening della personale di Thomas Canto.

ZERO: Iniziamo dalle presentazioni: dove e quando sei nato?
Giuseppe Pizzuto: Sono nato a Roma il 28 marzo 1980.

Quando hai iniziato ad appassionarti all’arte, in particolare a quella contemporanea?
Credo che un primo “click” con l’arte sia avvenuto alle scuole medie quando ho studiato per la prima volta gli impressionisti. Non so perché, ma questo gruppo di pittori e il loro modo di operare mi hanno incuriosito subito. Passando a studiare anche espressionisti e surrealisti, ho immediatamente percepito ci fosse qualcosa di magico intorno a questa faccenda dell’arte. Era un argomento su cui senz’altro valeva la pena saperne qualcosa di più. Questo genuino interesse è poi rimasto sopito per un po’ di tempo. La fiamma si è rianimata durante i primi anni dell’università. Per lo più ero attratto da musica (jazz) e cinema e, grazie a un gruppo di amici ultra-cinefili (non saprei come altro definirli), ho avuto l’opportunità di vedere tantissimi film e di partecipare – da profano – ad alcune discussioni appassionate. La passione per l’arte contemporanea si è andata consolidando in quegli anni e grazie anche alla mia forte amicizia con Giuseppe Ottavianelli, che ha respirato arte fin da giovane.

C’è stata una mostra, o un artista, che ha fatto scattare la passione?
La visita al Van Gogh Museum di Amsterdam. Ricordo di essere uscito da quel museo particolarmente eccitato, senza peraltro capirne minimamente il perché. Sono anche stato fortemente colpito dalla potenza delle opere di Rothko, che ho visto per la prima volta dal vivo al Palazzo delle Esposizioni a Roma, e dalle sculture di Richard Serra, che ho visto al Guggenheim di Bilbao, dalle opere in legno di Ceroli viste al Mambo, e dalla visita alla Gibellina di Burri.

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Il “Cretto” di Burri di Gibellina.

C’è stato invece un artista che ti ha avvicinato alla street art, o urban art, che dir si voglia?
Essendo stato un adolescente negli anni 90 a Roma, sono stato abituato a vedere graffiti ovunque e ho provato immediato interesse nei confronti di questo fenomeno. Poi, non so come, mio fratello (più piccolo di me) acquistò un libro sui graffiti americani. Sfogliandolo percepivo un’energia misteriosa. Misteriosa principalmente perché non riuscivo a trovare una spiegazione al fatto che quelle foto di vagoni pieni di scritte mi emozionassero tanto. Anni dopo fu il libro Wall and Piece di Banksy ad aprirmi gli occhi sul mondo della street art.

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L’opera di Banksy scelta per la copertina di “Wall and Piece”.

Ti sei mai dilettato con pennelli o stancil, oppure la tua passione per l’arte è sempre rimasta quella di un osservatore?
Vivendo a così stretto contatto con l’arte, la tentazione di prendere in mano gli strumenti del mestiere è forte. Penso di avere una buona dose di creatività, però, ecco, ho troppo rispetto la figura dell’artista per pensare, anche solo lontanamente, di definirmi tale. In sintesi creatore sì, artista no.

Come e quando è avvenuto il tuo ingresso nel mondo dell’arte da “addetto ai lavori”? Ci puoi raccontare il tuo arrivo alla Wunderkammern?
Sono entrato a far parte del team di Wunderkammern alla fine del 2011. Il merito (o la colpa?) è stato senz’altro di Giuseppe Ottavianelli, che è anche uno dei fondatori. Lui ha aperto la galleria nel 2008 a Torpignattara, con la giusta dose di passione, professionalità e incoscienza, che è dietro tutte le iniziative di successo. Ed è stato ovviamente lui a coinvolgermi in questa meravigliosa pazzia. Più o meno è andata così. Intorno alla metà del 2010 mentre seguiva l’Invasione di Roma di Invader, con la guida critica di Achille Bonito Oliva, Giuseppe mi ha detto che cercava un socio, ed a me è sembrata subito un’idea brillante gettarmi mani e piedi in un progetto in grande fase di sviluppo.

Una delle tante tracce lasciate da Invader a Roma, quando fu invitato a Roma dalla Wunderkammern nel 2010.
Una delle tante tracce lasciate da Invader a Roma, quando fu invitato a Roma dalla Wunderkammern nel 2010.

La differenza che maggiormente hai rilevato tra l’essere un appassionato d’arte e uno che con l’arte ci lavora?
Per me nessuna. Nonostante la nostra maniacalità nel cercare un approccio totalmente professionale, non riesco a vivere la mia avventura nel mondo dell’arte contemporanea come un “lavoro” nel senso più tradizionale del termine, vale a dire come un “dovere”, qualcosa che comporti obblighi e responsabilità. Per me essere socio e co-direttore di Wunderkammern significa avere l’opportunità di sfogare una pulsione. Passione per l’arte, passione per i progetti imprenditoriali, passione per l’idea di fare qualcosa di bello con la speranza di lasciare un segno attraverso gli artisti che rappresentiamo e con cui sviluppiamo una ricerca artistica di alto livello. Questi sono per me gli elementi chiave.

Qual è stata la prima mostra che hai curato?
La prima mostra che ho curato è stata Small Wheel, Big Wheel di Agostino Iacurci (gennaio 2014). Era la terza del progetto Public & Confidential, dopo la personale di Dan Witz e quella di Rero. Ero particolarmente contento di avere l’opportunità di curare la prima personale di Agostino, anche per il fatto che, essendo anche lui di stanza a Roma, mi immaginavo avrei visto i pezzi “nascere” e li avrei seguiti man mano che prendevano vita. Ovviamente lui ha ben pensato di trasferirsi a Padova per preparare tutto, perché diceva così si sarebbe concentrato di più sulla produzione, senza distrazioni. Quindi i dialoghi avvenivano per di più al telefono e via mail. È stato comunque entusiasmante. Ricordo perfettamente il senso di straniamento che ho provato attaccando il telefono dopo che Agostino mi aveva comunicato che avrebbe voluto realizzare per il seminterrato della galleria un cavallo a dondolo. «Hai presente i cavalli a dondolo giocattolo, fatti di legno, dal gusto un po’ rétro?» mi ha detto Agostino. «Si ho presente» gli ho risposto. «Ecco, sto pensando di realizzarne uno così, però alto 3 metri» mi ha detto lui, serissimo. Essendo il tema della mostra il gioco, abbiamo voluto ricreare una sorta di “giostra” proponendo, oltre a quadri, disegni e bassorilievi, una serie di installazioni assolutamente folli (un’altalena sospesa, una scala “impossibile” e poi il cavallo a dondolo alto 3 metri).

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“Zero infinito”, l’intervento pubblico realizzato da Iacurici in via Aquilonia in occasione della mostra alla Wunderkammern.

L’ultima, invece?
È stata la mostra di Jacopo Ceccarelli, aka 2501, a giugno del 2015 (Nomadic Experiment – On the Brink of Disaster). È stato particolarmente affascinante avere l’opportunità di immergermi nel suo immaginario. Stare dietro alle sue mille idee non è stato sempre facile e abbiamo dovuto fare uno sforzo di selezione, anche se chi ha visto la mostra ha potuto apprezzare il fatto non si sia trattato di un’esposizione minimalista. Però, a mio avviso, è stato giusto così. La mostra era l’ultima di un ciclo di tre suoi eventi e, alla fine dei conti, era il racconto/resoconto di un viaggio. È stata un po’ la mostra con cui Jacopo ha voluto “tirare le fila” del suo progetto ripercorrendone tappe e itinerari. Abbiamo esposto ceramiche, tele, opere su legno, macchine cinetiche, un documentario, strappi, foto. Insomma non ci siamo fatti mancare niente.

 

La Wunderkammern si trova in un quartiere sostanzialmente periferico, Torpignattara, eppure a ogni vernissage bisogna fare la fila all’ingresso: qual è il segreto che vi ha permesso di catturare così tanto pubblico?
«Location, location, location» gridano i guru del business. E hanno ragione. Abbiamo spezzato con la tradizione di Roma e innovato. Innovazione anche sulla location. Come avviane in tutte le capitali europee da molti anni. Inoltre credo siamo riusciti a lavorare in maniera equilibrata facendo un’attenta selezione degli artisti da proporre, cercando di portare a Roma e in Italia artisti che non vi avessero mai esposto – quantomeno non nell’ambito di personali o progetti importanti – tentando di comunicare sempre al meglio le nostre iniziative. Credo che, più di tutto, siamo stati capaci di trasmettere al pubblico la nostra passione genuina.

Quindi lavorare in un quartiere lontano dal centro e dal 90% delle gallerie cittadine lo vivete come un’opportunità?
Sì, come un’opportunità. Non siamo capitati a Torpignattara per caso. Abbiamo scelto di starci.

Sicuramente un’opportunità è il poter affiancare le mostre a interventi su muro: com’è nato il coinvolgimento degli edifici del quartiere?
È nato in maniera naturale. Quando abbiamo cominciato a invitare a Roma artisti che fanno parte del movimento dell’urban art, abbiamo pensato fosse bello lasciare un segno tangibile del loro passaggio in città e alla Wunderkammern. Così, quando gli artisti lo chiedevano, abbiamo iniziato a produrre interventi su alcuni degli edifici intorno alla galleria. Ora il quartiere è immerso nell’arte pubblica.

Un intervento dell’artista russo Alexey Luka, ospitato a Roma dalla Wunderkammern nel maggio 2014.

Qual è l’iter che dovete affrontare per ottenere una facciata su cui lavorare?
Al momento serve esclusivamente il consenso dei proprietari dello stabile. Il coinvolgimento del Municipio è necessario quando si occupa un pezzo di marciapiede o di strada con bracci meccanici o impalcature. In quel caso occorre richiedere una OSP (Occupazione di Suolo Pubblico). Ovviamente il coinvolgimento del municipio è poi imprescindibile nel momento in cui vengano individuati immobili pubblici (scuole, etc.) per la realizzazione di interventi artistici.

Come hanno reagito gli abitanti di Torpignattara?
Inizialmente c’è stata una qualche diffidenza. Come dar loro torto? Si tratta di un’operazione totalmente basata sulla fiducia. Solitamente non presentiamo bozzetti né altro materiale, per consentire all’artista di lavorare con la massima libertà e facendosi anche influenzare dal “mood” del luogo e del momento. Se qualcuno all’improvviso ti chiedesse di firmare una liberatoria in bianco per poter realizzare un intervento artistico sulla facciata di casa tua, cosa gli diresti? Anzi, sono stati coraggiosi. Oggi, guardandosi in giro, è più facile apprezzare quello che negli anni è stato fatto. Ma all’inizio non c’era nulla da mostrare. Il territorio si è fidato di noi, e noi speriamo di essere stati all’altezza della fiducia. Tantissime cose sono cambiate negli ultimi cinque anni. Adesso sono gli abitanti del quartiere che a volte ci segnalano muri che i proprietari vorrebbero mettere a disposizione per effettuare questi interventi. Percepire questo “bisogno d’arte” devo dire che è particolarmente entusiasmante.

 

Immagino che di “sketch” di quartiere durante questi lavori se ne siano verificati parecchi, te ne ricordi qualcuno in particolare?
Uno dei più recenti riguarda il muro di 2501 a Quartoggiaro a Milano. Mentre Jacopo lavorava, una signora anziana che abitava all’interno del palazzo si è affacciata alla finestra e ha chiesto a Jacopo se avesse potuto fare la stessa cosa non solo sull’esterno, ma anche nel salotto della sua casa. Molti a volte si chiedono «Chissà cosa dicono quelli che ci abitano lì dentro…?». Ecco cosa dicono.

Tra i tanti artisti ospitati ce n’è uno che ti sia rimasto più impresso?
Conservo bellissimi ricordi di ogni mostra e ogni artista con cui ho avuto l’opportunità di lavorare.

Quello che vorresti ospitare in futuro?
JR.

 

I tuoi cinque artisti preferiti?
Questa è difficile… Non ci ho mai pensato… Una classifica alla Nick Hornby: Hopper, Rothko, Fontana, Pollock, Duchamp… Se me lo richiedi domani probabilmente ti do 5 nomi diversi.

Spostandoci di qualche chilometro più a Nord, state per inaugurare una seconda sede a Milano: ci racconti il perché di questa scelta?
Era un po’ di tempo che avevamo per la testa l’idea di aprire una seconda sede. Dal 2014 ho iniziato a frequentare Milano con regolarità – tutte le settimane passo tre o quattro giorni a Milano. Quindi direi che l’idea che la seconda sede della galleria dovessimo aprirla a Milano è stata una scelta fisiologica. Devo dire che sono stato colpito dalla sensibilità che la città riserva alle tematiche legate all’arte contemporanea nelle sue varie forme. Siamo inoltre convinti che Milano – anche per il suo forte dinamismo e la sua vocazione internazionale – sia un luogo chiave per l’arte contemporanea in Italia e in Europa (basti pensare a istituzioni quali Fondazione Prada, HangarBicocca, PAC, Triennale, etc.). Insomma, abbiamo sentito la necessità di essere presenti e sfruttare al meglio tutte le opportunità che la città offre. L’ingresso di Dorothy de Rubeis – che vive e lavora a Milano – come socia e co-direttrice di Wunderkammern ha dato poi la spinta finale al progetto, e l’idea si è quindi tradotta in realtà. Abbiamo “sondato” il terreno organizzando a fine giugno 2015 la mostra-evento Chained. La risposta è stata di grandissimo entusiasmo, quindi questo ci ha dato ancora di più energie per proseguire nella nostra direzione.

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Un immagine della collettiva “Chained” realizzata dalla galleria Wunderkammern a Milano nel 2015.

Ci puoi raccontare lo spazio di Milano? Che attività c’era prima?
C’era un’altra galleria. Quindi siamo contenti perché in questo caso abbiamo mantenuto lo “spirito” del luogo.

Che cosa vedremo nella Wunderkammern milanese e come si differenzierà da quella di Roma?
A Milano vedrete una serie di mostre interessanti. Dopo la personale di Blek le Rat (trovate qui l’articolo di Zero dedicato alla mostra) ospiteremo una personale di JonOne e una collettiva con artisti tipo Alexis Diaz, Faith47, Miss Van. Le caratteristiche e gli obiettivi di Wunderkammern Milano saranno esattamente gli stessi di Wunderkammern Roma, dato che non abbiamo aperto un’altra galleria, ma una nuova sede di Wunderkammern, quindi il progetto continua a svilupparsi in maniera unitaria e coerente, con la consueta attenzione ai temi legati alla meraviglia, ai territori di confine, all’arte pubblica e alle interazioni. Non puntiamo a “differenziare”, anzi, vogliamo andare in piena continuità.

Secondo te perché questa nuova ondata di urban art ha preso prima piede a Roma che a Milano? Eppure una prima, discussa, mostra istituzionale ci fu proprio al Pac
A Roma ci sono realtà che da anni lavorano intensamente in questo settore. Penso all’attività svolta da NuFactory con l’organizzazione del festival Outdoor giunto oramai alla sua sesta edizione. Questo ha portato la formazione di una serie di operatori professionali che hanno catalizzato la presenza di tantissimi artisti e di molti progetti relativi a interventi nello spazio pubblico. A Milano francamente non lo so perché ci sono stati meno interventi di questo tipo. Sto ancora cercando di capirlo. Anche se con Chained devo dire abbiamo realizzato una serie di interventi pubblici particolarmente interessante, e la risposta di pubblico e collezionisti è stata di grande partecipazione.

Ci racconti le due prossime mostre in programma: Blek Le Rat (Milano) e MP5 (Roma)?
Blek lo abbiamo scelto perché amiamo la sua ricerca e perché rappresenta un vero pilastro per lo sviluppo dell’Urban Art. Quando ha cominciato a lavorare con gli stencil per le strade di Parigi, c’era solo lui. Come scrive Jacopo Perfetti nel bellissimo testo critico che accompagna la mostra: «Se il successo di un artista si misurasse sulla sua abilità tecnica, non sarebbe un artista ma, appunto, un tecnico. Il successo di un artista invece si misura attraverso la sua sensibilità, attraverso la capacità di vedere oltre rispetto a quello che vedono gli altri. Spesso Blek le Rat viene ricordato per essere l’inventore dello stencil applicato alla street art, ma questo è superficiale e riduttivo. Lo stencil è una tecnica. Quello che ha inventato Blek le Rat è un modo nuovo di fare arte. Un modo che oggi trova la sua massima espressione artistica e commerciale. L’innovazione di Blek le Rat sta nel suo pensiero, nell’aver creato un’arte immediata, sporca, irriverente, che arriva a tutti perché tutti hanno il diritto di viverla». Motivo per cui riteniamo che Blek faccia da legame tra vari movimenti, quello dei graffiti, Fluxus e quello dell’Urban Art.

 

Per quanto riguarda MP5 è da molto che la seguiamo e siamo fortemente attratti dalla potenza delle sue immagini. Un tratto semplice e di un’efficacia incredibile, una poeticità unica e una forza espressiva dirompente. MP5 è un’artista matura e ci sono tutti gli elementi per organizzare una mostra personale completa. Vi aspettiamo a Roma il 20 febbraio.

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Uno degli ultimi lavori realizzati da MP5, a Saint Etienne.

Qual è il tuo museo preferito di Roma e di Milano?
A Roma la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, a Milano l’HangarBicocca.

La tua galleria?
A parte Wunderkammern? Galleria Continua.

La migliore mostra che ti è capitato di vedere di recente?
A Roma (Palazzo delle Esposizioni): Impressionisti e moderni. Capolavori dalla Phillips Collection di Washington. A Milano (HangarBicocca): Damián Ortega – Casino.

Un bar e un ristorante dove ti piace andare quando non lavori, sia a Roma che a Milano?
A Milano come ristorante mi piace molto il Ratanà: è situato in una location davvero unica e si mangia sempre molto bene. Poi, come bar/ristorante, il Bioesserì di via Fatebenefratelli. A Roma come bar senza dubbio il bar di Dante dentro il complesso parrocchiale di Sant’Agnese (fuori le mura): è un posto unico al mondo. Come ristorante la pizzeria Panattoni di viale Trastevere.

Se potessi scegliere un muro o una qualsiasi superficie di Roma da poter far dipingere, quale sarebbe? E di Milano?

Dipende dall’artista. A Roma sono molteplici i luoghi che marcano la città e che possono destare l’interesse specifico di un artista. Penso al Lungotevere, penso alla Tangenziale Est. Ovviamente non mi immagino solo dipinti murali, ma interventi nel tessuto urbano stesso, come abbiamo fatto con Mark Jenkins nel 2012. A Milano la Stazione Centrale.

Un opera di Mark Jenkins per le strade di Roma, realizzata in occasione della sua personale alla Wunderkammern nel 2012.
Un opera di Mark Jenkins per le strade di Roma, realizzata in occasione della sua personale alla Wunderkammern nel 2012.